Il rispetto dell’altro fra società e scuola

La scuola, in particolare quella che deve ospitare tutti, indistinta­mente e pubblica­mente, è quasi al­legoria della so­cietà, perché ciò che entra nelle aule ogni giorno, sottintende la di­mensione esterna alle mura, con il proprio brulicare di contraddizioni, difficoltà, fatiche e allegrie, solitudi­ni e relazioni, miscele culturali. Ciò che accade nella realtà, fuori dalle mura, lo possiamo rintracciare den­tro le aule. Un docente impegnato nel settore secondario incontra tutte le settimane, mediamente, credo un cen­tinaio di allievi (dipende dalla ma­teria insegnata: a volte gli studenti sono 200): a memoria, il mio collega conta dieci svizzeri, venti serbi, otto bosniaci, tre turchi, quattro portoghe­si, trenta italiani, sei kosovari, un se­negalese, due colombiani… La paura del diverso è aumentata? Pare di sì. Dicono sia a causa del­l’inevitabile prodotto della globaliz­zazione: l’incertezza. La gente infat­ti è impaurita di fronte alle incogni­te legate al lavoro, al proprio benes­sere. È dunque sempre più comples­so difendere il rispetto per l’altro e delle regole, in un contesto in cui sia­mo molto concentrati su noi stessi. Allo stesso modo dovrebbe risultare difficile lavorare ad esempio contro il razzismo e la discriminazione con gli studenti, influenzati dalle fami­glie, dalla cronaca, dai timori indot­ti dalla necessità di cercare equilibri e sicurezze.
Di fronte a tale caos, la scuola deve saper costruire in modo critico, ar­gomentare senza il timore di marcia­re contro corrente, educando alla fa­tica, trasmettendo un sapere ordina­to, cercando sequenzialità e struttu­re, confrontandosi e a volte scontran­dosi con il mondo là fuori, che è sem­pre più incostante, frantumato e leg­gibile attraverso immagini veloce­mente associate. È la nostra epoca.
Una buona rete educativa, oggi, sa trasmettere il sapere ed educa al ri­spetto dell’altro e della cosa comune (fatto non sempre scontato tra noi gli adulti). Ci pare un compito difficile, ma non possiamo permettere che di­venti utopico, poiché la scuola è in­nanzitutto uno spazio di convivenza, un luogo realmente significativo, che ha un valore simbolico portante.
Per convincere che il rispetto recipro­co tra le persone e le regole condivi­se, sono fondamentali nelle società, bisogna portare chi sta crescendo, an­che a diretto contatto con l’esperien­za, quella, ad esempio, di una gio­ventù che dibatte. Imparare ad ar­gomentare, capire da dove deriva un pensiero politico, dibattere e stare nel conflitto, sapendolo gestire con gli strumenti del sapere e anche con le emozioni, è fondamentale. E leggere Calvino, Benni, Anne Frank, signifi­ca trasmettere il senso di una scrit­tura che valga come impegno civile e rilettura del mondo (oggi l’intrat­tenimento a volte spazza via dalla scena questo impegno).
Dobbiamo ancora credere che la scuola sia un luogo davvero privile­giato per realizzare. Ci vuole corag­gio e lucidità intellettuale. Sono an­che convinto che quanto si fa di buo­no nella scuola debba essere comu­nicato verso l’esterno. Infine, fuori dalle mura dobbiamo godere di un sostegno: da parte delle famiglie, da parte della politica, da parte di un sistema formato anche da individui illuminati e lungimiranti che guidi­no il Paese. Tempo fa un professore universitario mi disse che la genera­zione prima della sua aveva cono­sciuto la fame. Quelli come lui, pro­fessore immigrato, la fame no, ma avevano invece conosciuto la fatica. Di emergere. Di riemergere. Di pro­gredire. Non dimentichiamocelo.

Articolo Corriere del Ticino, 6 ottobre 2011
di Daniele dell’Agnola, insegnante e scrittore