È con qualche reticenza, non sapendo bene a cosa sarei andato incontro, che avevo deciso di accettare l’invito di partecipare alla giornata di dibattito sulla scuola organizzata sabato scorso dall’associazione Società Civile. Non sapevo da dove venisse quell’invito e m’intrigava anche il fatto che avessero invitato proprio me, estraneo come sono ormai da decenni (e non ne ho mai fatto un mistero) alla realtà della scuola ticinese. Così ho rischiato il passo. Confesso in tutta umiltà che ho dovuto rimangiarmi tutte le mie reticenze: è stata un’esperienza positiva su tutta la linea e che avrei voglia di ripetere.
In una sola giornata, per quanto intensa e ben organizzata, voler affrontare il tema della scuola, della sua funzione, delle sue mancanze e dei suoi desideri, è naturalmente assurdo, e non era nemmeno questo l’intento degli organizzatori. L’intento era chiaro e molto più modesto; diceva semplicemente: «parliamone!». Il pericolo, semmai, sarebbe stato quello di perdersi in tante chiacchiere e lamentele, ma non mi sembra proprio che questo sia avvenuto. Il fatto è che il tema è di una tale fondamentale importanza e tocca troppo da vicino ognuno di noi, nessuno escluso, perché ci si possano permettere le chiacchiere.
Un’atmosfera che definirei di «serena serietà» aleggiava infatti sin dall’inizio – prima ancora che cominciassero i lavori dei gruppi – su quella cinquantina di astanti riunitisi nell’aula magna dell’USI, e mi sembrava di buon augurio. L’introduzione breve, concisa e mirata del prof. Martinoli ha saputo coglierla e rilanciarla in modo intelligente. Era chiaro che nessuno si aspettava soluzioni; solo attenzione ai problemi, scambio di opinioni e, per quanto possibile, argomenti fondati.
Dopo un’esposizione non troppo felice e abbastanza confusa dei risultati di un’inchiesta commissionata dalla stessa associazione Società Civile, di cui dirò anche in seguito, si sono appartati i quattro gruppi di lavoro proposti: sulla formazione degli insegnanti, la scuola media, le scelte scolastiche e professionali e l’integrazione.
Nel gruppo al quale mi ero iscritto, quello sulla formazione degli insegnanti (che mi sembrava il più vicino alle mie esperienze d’insegnamento) si erano riunite una quindicina di persone, che in parte già conoscevo, in parte no. Avevamo solo due ore prima della pausa pranzo e ancora un’ora dopo la pausa per raccogliere e ordinare le idee e le proposte, prima di tornare al plenum per esporre, insieme agli altri tre gruppi, i risultati della discussione. Il nostro capogruppo, l’ex ispettore scolastico Roberto Ritter, aveva preparato uno specchietto di temi molto utile per inquadrare e limitare il dibattito, e si è così riusciti ad arrivare abbastanza rapidamente al sodo senza troppo divagare.
Quello che subito mi ha colpito, e non soltanto nel gruppo di cui facevo parte, è stata la scarsissima presenza di rappresentanti della giovane generazione, che rispecchiava, fra l’altro, anche l’età media degli interpellati da quell’inchiesta di cui avevamo in mano i risultati: oltre i 50 anni, il che non coincide di certo con la realtà del Paese. Mancava dunque, tanto nel nostro quanto negli altri gruppi, una componente essenziale ad un dibattito proficuo: quella giovanile. Benché questo fosse chiaramente un limite, non si è rivelato però – perlomeno nel nostro gruppo – essere soltanto negativo. Nonostante le diversità di formazione, di competenze, di ruolo e di vedute dei partecipanti, una certa unità si è subito creata grazie ad esperienze comuni dovute alla comune età.
Pur nella coscienza delle gravi mancanze della scuola che noi stessi avevamo frequentato (dagli anni Cinquanta al 70) e dell’impossibilità di un paragone con le esigenze della scuola di oggi, la riflessione su alcuni valori positivi che sembrano irrimediabilmente perduti era, direi, unanime : la mancanza, fra gli insegnanti di oggi, di figure davvero carismatiche che sappiano con autorevolezza (non con autoritarismo) servire da esempio e da guida nella formazione dei giovani; la tendenza a voler vedere nella professione dell’insegnante la funzione di un impiegato specializzato, più che quella dell’uomo di cultura dedito alla trasmissione del sapere in senso globale, non soltanto come cumulo di conoscenze specifiche. Argomenti toccati anche dalla bella relazione introduttiva al plenum del prof. Fabio Minazzi.
A conclusioni simili sembravano anche essere giunti gli altri tre gruppi di lavoro, a giudicare dai loro resoconti.
Mi era capitato un po’ per caso di vedere, la domenica prima, sul primo canale della nostra televisione, il dibattito di «Linea rossa», una lodevole iniziativa che dà spazio di parola ai giovani dai 15 ai 20 anni. Pur in un linguaggio diverso e a volte contraddittorio, i desideri e le richieste di quei giovani nei confronti dei loro insegnanti non differivano di molto dalle conclusioni a cui era giunta la nostra riunione di veterani. Ma non è raro che i figli si alleino più facilmente con la generazione dei nonni che non con quella dei padri e delle madri… Tanto più piacevole la sorpresa della relazione conclusiva, affidata ad una rappresentante della generazione più giovane dei ricercatori, che è ora sulla breccia: la professoressa Tatiana Crivelli dell’Università di Zurigo. Confidando nelle sue capacità di lettura, ha voluto gettare uno sguardo dal punto di vista della narrazione sulla situazione della scuola ticinese e dell’immagine dell’allievo, da Gian Burra s ca al Cuore del De Amicis. Ma quale opera di narrativa poteva prestarsi meglio alla metafora se non quella che alcuni (e mi annovero nel numero) considerano il capolavoro assoluto della letteratura italiana, il Pinocchio? Con garbo e delicatezza, l’immagine del burattino che va a scuola per diventare un uomo vero per sua volontà, nonostante tutte le insidie sul cammino, faceva capolino dal suo discorso. A lui il compito di riconoscere ed evitare i burattinai Mangiafuoco che muovono le fila.
Articolo Corriere del Ticino, 2 dicembre 2011
di Mauro Guindani, docente e regista