DFA: qualche responsabilità da mettere in luce

La rinuncia di Nicole Rege-Colet alla direzione del Dipartimento formazione e apprendimento (Dfa) della Supsi, definita consensualmente con la presidenza della Supsi, fa discutere ed è giusto che sia così. Giova ricordare che il Dfa ha assunto l’eredità che la Magistrale di un tempo, prima seminariale poi postliceale, e l’Istituto di Abilitazione e Aggiornamento (Iaa), aggiuntosi negli anni 90 con il compito di formare soprattutto i docenti della Scuola media, avevano consegnato all’Alta Scuola Pedagogica (Asp).

Giancarlo Dillena – dapprima sul Corriere del Ticino e poi Franco Lazzarotto su laRegioneTicino – hanno fatto i loro commenti. Dillena, a cui pure ha risposto il capo del Decs Manuele Bertoli, parte da una premessa assolutamente corretta: si eviti di attribuire eccessive responsabilità all’ex direttrice, perché i problemi del Dfa e della formazione degli insegnanti in Ticino vengono da lontano. Purtroppo, poi, identifica una delle ragioni principali di tali problemi nel presunto vezzo sindacale e rivendicazionista che si sarebbe annidato nelle menti dei nipotini del ’68, visto che buona parte dei protagonisti di quella stagione sono ormai usciti di scena. Sa molto di stantio questo tentativo di ideologizzazione e soprattutto denota una scarsa conoscenza della realtà, in particolare del corpo insegnante del Dfa.

Dal canto suo, Lazzarotto si lascia andare ad una filippica – mi sia concesso evidenziarlo – che poco si addice ad un direttore di Scuola media, sia per il linguaggio irrispettoso della persona e della professionalità della direttrice partente, sia per la fragilità dell’argomentazione che, in buona sostanza, si riduce all’affermazione secondo cui chi ha una funzione del genere deve conoscere molto bene la realtà locale. Il rischio di scadere nel troppo tipico provincialismo cantonticinese è fin troppo evidente.

Di fronte a questo quadro credo che vi siano alcuni aspetti che meritano una certa attenzione.

Formazione dei docenti, questione delicata

Primo: fra gli addetti ai lavori in Ticino vi è sempre stata, sin dagli anni 80 del secolo scorso, la consapevolezza che la formazione degli insegnanti fosse una questione delicata; per molte ragioni, fra cui la sua rilevanza culturale e ideologica (l’insegnante come uno dei protagonisti della costruzione dello Stato sin dalle sue origini nell’800), ma anche, in vista del passaggio al livello terziario-universitario, il problema della massa critica sia degli studenti (docenti in formazione) sia del corpo insegnante. Con l’aggiunta, per buona parte di quest’ultimo, della mancanza di una cultura scientifica. Di tale consapevolezza aveva tenuto conto la commissione che, presieduta dall’allora capo dell’Uims Vittorio Fé, all’inizio degli anni 90 aveva preparato la creazione dell’Iaa.

Nel suo progetto originario vi erano infatti due componenti che miravano proprio all’idea di creare, sull’arco di una decina di anni, quell’humus culturale e scientifico indispensabile per il ventilato passaggio ad un’istituzione di carattere terziario: la prima riguardava la creazione di un dipartimento di ricerca e sviluppo e la seconda l’instaurazione di un partenariato con una o più università. Le due misure avrebbero contribuito a formare un corpo insegnante dotato delle necessarie risorse scientifiche e aperto verso il mondo accademico.

Malauguratamente, a livello di dipartimento, le proposte vennero classate senza speranza alcuna. Manifestamente non vi era, visto anche con il senno di poi, né la lungimiranza né la volontà politica di investire e costruire per una prospettiva a medio e lungo termine. Questa responsabilità dipartimentale trovò conferma qualche anno dopo, quando all’ordine del giorno vi fu la necessità di sostituire il compianto Ivo Monighetti alla direzione di Magistrale e Iaa. In molti si sottolineò la necessità imprescindibile di trovare una personalità che avesse la necessaria autorità scientifica, che fosse fuori e al di sopra delle piccole contese provinciali così da essere riconosciuta e potesse essere nelle condizioni di pianificare l’ormai imminente “salto di categoria”. Come andarono le cose e quali furono le scelte dipartimentali è cosa nota a tutti.

Incapaci di mettersi in gioco

Secondo. Se c’è una cosa su cui il corpo insegnante magistrale a mio avviso dovrebbe riflettere criticamente, questa non è certo – per buona pace di Dillena – il fatto di aver avanzato e difeso posizioni sindacali e culturali, ma il non essere stato in grado di mettersi in gioco in una prospettiva di aggiornamento e formazione continua scientifico-accademica.

Mi sia concesso da questo punto di vista un aneddoto. Io facevo parte dell’allora direzione dell’Iaa, con responsabilità per l’aggiornamento. Agli insegnanti, delle varie didattiche e di scienze dell’educazione, entrati nella nuova istituzione venne fatta la richiesta di stendere, nel corso del primo anno di lavoro, un rapporto sullo stato dell’arte della propria disciplina o didattica disciplinare. Apriti cielo! La resistenza a questo che era e avrebbe dovuto essere un normalissimo atto di seria apertura professionale fu sorprendente e non se ne fece nulla. Certo si potrà, e a ragione, obiettare che in quel frangente venne meno l’autorità della direzione, ma l’evento si allinea, in quanto espressione dell’angustia culturale e del provincialismo professionale, sulla decisione dipartimentale di qualche anno prima di bocciare l’idea di un dipartimento di ricerca e sviluppo e di un partenariato con un’università.

Se oggi non abbiamo una classe insegnante magistrale con una cultura didattica e pedagogica solida e all’altezza del compito è perché questa, se almeno parzialmente c’era nella vecchia tradizione magistrale, non solo si è persa nei meandri delle trasformazioni istituzionali di un ventennio, ma è stata scarsamente e comunque insufficientemente rigenerata da buona parte dei protagonisti stessi.

Problema di legittimazione

Terzo. È noto a tutti che la formazione professionalizzante degli insegnanti del settore medio e medio superiore ha in Ticino, più che altrove, un problema di legittimazione. Per certi versi, il problema è riconducibile a quanto appena detto, ma ha radici anche ben più profonde, legate all’identità professionale degli insegnanti stessi, al ruolo sociale e culturale che hanno avuto nella storia del Cantone e, non da ultimo, alle modalità della formazione.

Per la Scuola media e il Liceo questa – a differenza del settore professionale e per disposizioni federali – non avviene parallelamente all’attività d’insegnamento, ma in regime di tempo pieno e dopo l’ottenimento di un bachelor o master universitario. Non si può tuttavia trascurare un altro fattore. La pedagogia e la psicopedagogia, o più in generale le scienze dell’educazione, più ancora delle diverse didattiche di materia, hanno sviluppato negli ultimi decenni un’identità, vale a dire un modo di essere, di porsi e di agire di fronte alla realtà che rende ardua la comunicazione con gli interlocutori principali, ovvero i docenti. È sicuramente un problema di linguaggi, ma non solo. Di mezzo c’è anche un’identità di queste discipline non a caso ambigua: da un lato espressione di una certa qual arroganza tipicamente tecnicoscientifica (le spiegazioni dei problemi le abbiamo noi), dall’altro lato manifestazione di una oggettiva difficoltà e fragilità nel cogliere le sfide reali a cui l’insegnante è quotidianamente confrontato. In effetti, risulta difficile evitare l’impressione che alle scienze dell’educazione sia venuto un tantino a mancare quel sano spirito critico fondato sul dubbio di cartesiana memoria. Che poi negli ultimi anni queste stesse scienze dell’educazione abbiano avvalorato e legittimato sistematicamente un discorso orientato quasi esclusivamente ai criteri dell’efficacia, dell’efficienza e del controllo, dimenticando i contenuti culturali della scuola, non migliora certo le cose.

Adattarsi alle moderne forme organizzative aziendali

Quarto. Gli insegnanti del Dfa sono stati criticati per non essere in grado di adattarsi alle moderne forme organizzative aziendali. Forse vale la pena ricordare che il buon insegnante non ha mai contato le ore e, io penso, non le conterà mai. Ora, si dà il caso che proprio la gestione aziendale che si vorrebbe panacea dei problemi degli istituti scolastici si fonda su modalità di organizzazione e di controllo del lavoro e delle prestazioni che mal si conciliano con il lavoro dell’insegnante. Meglio: si possono conciliare, ma pagando il pedaggio dei bravi insegnanti che, coinvolti nel sistema, inesorabilmente cominciano anche loro a contare le ore.

Il futuro del Dfa e della formazione degli insegnanti non è dei più rosei e ci vorrà parecchio coraggio nel prendere le prossime decisioni. In ogni caso, mi pare importante che si evitino le concessioni sia al provincialismo sia al riduzionismo ideologico di matrice aziendalista.

Articolo La Regione Ticino, 18 novembre 2011
di Gianni Ghisla