La scuola può (deve) tornare a far cultura?

In pochi giorni due voci autorevoli hanno parlato su questo giornale della rinuncia della scuola a far cultura. Ha iniziato il direttore Dil­lena (31 agosto). Discutendo di differen­ze generazionali ha scritto: «Constato, nelle conoscenze di molti studenti, caren­ze vistose (…). Ma da dove vengono que­sti vuoti, se non da quella scuola che tan­to si è impregnata degli ideali di equità, parificazione, integrazione tradottisi poi in appiattimento omogeneizzante, finen­do col lasciare ad altri (a cominciare dal­le nuove tecnologie) il ruolo di principa­li ‘agenzie educative’?». Il 3 settembre gli ha fatto eco il presidente onorario del­l’UDC Ticino, Alexander Von Wytten­bach: «Se esaminiamo l’evoluzione dei programmi dell’istruzione pubblica, pos­siamo osservare come questi oggi privi­legino le conoscenze dei giovani utili so­prattutto al loro futuro professionale, al mondo economico, mentre la maggior parte delle conoscenze di cultura uma­na siano state messe da parte, cognizio­ni culturali rispondenti a profonde esi­genze umane (…). Nella società contem­poranea sono aumentate le persone istruite ma diventate rare quelle colte». Più volte ho scritto, in questa rubrica, della necessità che la scuola, a partire da quella dell’obbligo, recuperi la vena uma­nista che le ha dato lustro e grazie alla quale sembrerebbe conservare ancora la sua credibilità: l’onda lunga di una scuo­la consapevole. Non credo che l’utilita­rismo odierno sia figlio diretto delle uto­pie del’68, che miravano all’uguaglian­za. In quegli anni la Cultura fu apostro­fata col nomignolo di nozionismo, a mo’ di epiteto, per scoprire qualche anno più tardi che chi ne è sprovvisto è un soma­ro. È pur vero che all’epoca la scuola non valutava, ma classificava. «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti…», così come Bach e Michelangelo, servivano alla scuola per separare il grano dal loglio, l’aristocrazia dal volgo. Ricordate? Era­no i tempi del ginnasio e dell’unico liceo a Lugano. In nome dell’antinozionismo si scoprirono «l’imparare a imparare» e «l’imparare a essere», senza accorgersi che è difficile costruire atteggiamenti e attitudini individuali sul nulla. Purtut­tavia il quadro legislativo che è deriva­to da quell’epoca esagerata e gioiosa è frutto di un consenso parlamentare piut­tosto generalizzato: tutti i partiti che se­devano in Gran Consiglio in quegli an­ni, parecchi dei quali ci siedono ancora, sono stati protagonisti attivi del cambia­mento. Più tardi ci si son messi gli spe­cialisti delle didattiche disciplinari, che stanno tecnologizzando la scuola, ag­gravando il vuoto di Cultura. Forse, dun­que, è giunto il momento di rimettere ma­no ai piani di studio e a tutto l’assetto le­gislativo che regge le sorti della nostra scuola. Lo si faccia con la stessa concor­dia di quegli anni, dal PSA che non c’è più alla Lega che invece c’è, nella speran­za, però, che non abbia ragione Von Wyt­tenbach, che parla dei decisori di oggi ­politici e grandi dirigenti – come «di per­sone altamente specializzate, (…) ma umanamente e culturalmente incompe­tenti, prive di quella bussola etica fon­damentale dell’esistenza umana, discen­dente non dalla ragione, ma dalle emo­zioni e dal subconscio e rappresentata dalla cultura». Forse esiste ancora qual­che minuscolo spiraglio per ritrovare una scuola che formi cittadini consapevoli e, quindi, colti e preparati, preoccupando­si di tutti gli allievi e gli studenti e non so­lo di quelli nati mentre il Signore dormi­va. Certo che il bisogno quantitativamen­te massiccio di insegnanti, che si sta acu­tizzando, potrebbe mandare del tutto in palla gli istituti che li formano e che già oggi faticano a orientarsi: perché, si sa, la quantità (richiesta) è nemica della qualità (imprescindibile). Nubi ancor più fosche sembrano profilarsi all’oriz­zonte, dunque, col rischio che, alla fine, l’avrà vinta Ivan Illich (1926-2002), il grande fautore della descolarizzazione: vorrà dire che le Tv e il web educheran­no le future generazioni, completamen­te fuori da ogni controllo democratico.

Articolo Corriere del Ticino, Fuori dall’aula, 22 settembre 2011
di Adolfo Tomasini